Segnalazione:
Alberi
di
Fernando Lizzani e Mariano Rampini

Buongiorno lettori,
per Brè Edizioni vi segnalo il romanzo: “Alberi” di Fernando Lizzani e Mariano Rampini.

Un romanzo fantasy molto “ecologico” scritto a 4 mani da autori di esperienza.

Biografie:

Fernando Lizzani, nato a Roma il 22 dicembre 1963, è, da una quindicina d’anni, regista di programmi televisivi (“Linea Blu”, “Linea Verde Orizzonti”, “Top – Tutto quanto fa tendenza”, “Linea Verde”, “Linea Verde Life”), di collegamenti in diretta e di servizi filmati (“Cominciamo bene”, “Novecento”, “Telethon”, “Alle falde del Kilimagiaro”, “Carràmba che sorpresa!”, “Occhio alla spesa”, “I raccomandati”, ecc.). In precedenza, è stato critico cinematografico (“L’Umanità”, “Il manifesto”, “Altro cinema”, “Radio Città Futura, ecc.) e ha scritto fumetti, documentari (la serie De Agostini “Viaggio nelle meravigli dell’archeologia”), fiction radiofoniche (“Invito in giallo con delitto” su Radiouno), televisive (“Le mille e una notte”, “Sant’Anna: l’eccidio”), programmi televisivi (“Che fine ha fatto Babbo Natale?”) e, non accreditato, sceneggiature di film horror.  

A maggio 2020 ha pubblicato il suo primo romanzo “Piccole infamie vista mare” (Edizioni Aporema). A marzo 2021 è uscito il suo secondo romanzo “Le notti di Artemide” (Bertoni editore).

Mariano Rampini, nato a Bologna il 7 dicembre del 1953. Ha vissuto a Roma dal 1961 e ha lavorato come giornalista per testate specializzate in politica sanitaria fino al 2011. Legge fantascienza/fantasy/horror/weird praticamente da sempre ma ne scrive dal 1980 (circa). Raccoglie buoni consensi a cominciare dall’Italcon di Modena nel 1981. Seguono quelli del Premio Italia 1982 e il Premio Amatrix 1983.  Più recentemente si è aggiudicato il Premio Gianfranco Viviani (nel 2019 e nel 2020 rispettivamente per le categorie Fantasy e Fantascienza). Ha pubblicato per l’editore Fanucci di Roma (1989) il romanzo Saghe di un mondo perduto (secondo al Premio Italia del 1990). A distanza di tempo sono poi arrivati L’ultima notte dell’anno e I Ranger di Rogers (Robin Edizioni, rispettivamente 2011 e 2012). Lo scorso anno (2021) per i tipi di Aporema Edizioni, è uscito il romanzo Terre Aride Nel cuore dell’ombra. Suoi racconti sono apparsi in numerose antologie: Fanucci (tra tutti quelli pubblicati da citare l’introduzione a Il ciclo della strumentalità di Cordwainer Smith del 1989), Edizioni Tabula Fati (in Fantasie d’Oriente – 2021) ed Edizioni Scudo (Soundscapes – 2021).

Genere: romanzo fantasy
Editore: Brè Edizioni
Data di pubblicazione: 20 settembre 2022
Numero pagine: 247

Sinossi:
Edoardo Ferri è un “misuratore di alberi”: analizza la vegetazione. E proprio mentre svolge questa attività, accompagnato dalla sua aiutante Valeria, scopre che all’interno della corteccia di alcuni esemplari sono presenti simboli misteriosi. Inoltre, in quel bosco, accadono fenomeni strani: voci sospette, ombre inquietanti e piccoli cadaveri dentro alle cortecce. Ben presto i due ricercatori scoprono che quelle terre sembrano essere schiave di una maledizione di cui i paesani non amano parlare, e soprattutto con i forestieri. I ragazzi cominciano a indagare, coadiuvati da Margherita, una barista del luogo. Si troveranno davanti a credenze, sortilegi e misteri. Edoardo farà la conoscenza di Erminio, un barbone che non parla con nessuno da troppo tempo. Cosa nasconde? Ci si può fidare di lui? Un ritmo incalzante, una suspense continua per un romanzo dove il bene vuole sconfiggere il male nella loro lotta eterna. Edoardo riuscirà a essere il vincitore?

 

Vi lascio un estratto:

CAPITOLO 8

«Ti rendi conto di cosa stai dicendo?»

Quelle parole continuavano a rimbalzare nella mente di Edoardo mentre correva, la bocca spalancata nel tentativo di inghiottire l’aria umida e fredda della notte, il viso rigato di lacrime dallo sforzo e dalla tensione.

Correva senza guardare nulla, guidato dal solo chiarore di una luna non ancora piena sul sentiero da taglialegna che si era trovato a imboccare mentre fuggiva dal bosco dei Lanzi. Sentiva alle sue spalle l’eco delle grida, qualche sparo. Non riusciva a smettere di correre, neanche i suoi inseguitori fossero a pochi metri da lui. Lo stava guidando il terrore cieco generato da ciò che aveva visto e lo rendeva incurante dei sassolini, delle asperità del terreno, dell’erba bagnata e scivolosa sulla quale i suoi scarponcini da trekking facevano presa a malapena.

Correva con i polmoni che bruciavano, la bava alla bocca, senza alcun timore di rotolare giù, di scomparire nel buio del bosco. E fu quello che successe.

I suoi muscoli, gonfi di acido lattico, non ressero oltre allo sforzo dettato dal panico e le gambe cedettero. Fu sufficiente una piccola pietra che rotolò sotto la suola di una scarpa a farlo cadere, girare su se stesso, scivolare di fianco e scomparire, assorbito dalla discesa alla sua sinistra.

Gli parve di volare, di essere sospeso in aria quasi che la gravità non contasse niente per lui, ma fu un istante perché l’urto con il terreno lo ricondusse immediatamente a una realtà fatta di dolore. E nella quale la paura non era affatto scomparsa.

La terra era soffice e cedevole. Sotto le foglie c’era uno strato fangoso sul quale il corpo di Edoardo scivolò giù, sempre più giù, fino a colpire un grosso cespuglio contro il quale, alla fine terminò la sua caduta.

Rimase disteso, incapace di muoversi, respirando con affanno. Poi, i minuscoli graffi e le escoriazioni che si era prodotto cadendo cominciarono a farsi sentire tutte insieme. Il bruciore acuto di quelle ferite in qualche modo lo risvegliò dallo stato di semi incoscienza in cui era piombato. Capì di essere lontano dallo stradello su cui aveva corso alla disperata e che il bosco questa volta gli era amico. I rami e le foglie dei cespugli che aveva schiacciato rotolandoci sopra si erano rialzati richiudendosi su di lui e ora lo nascondevano alla vista. Spalancò gli occhi, ma non riuscì più a scorgere il debole chiarore lunare che lo aveva condotto fin lì. Rimase immobile, muovendo soltanto la punta delle dita e cercando di capire se la caduta gli avesse provocato qualche danno più grave. Niente. Soltanto contusioni dolorose. Molte contusioni e molti tagli. Da uno sul sopracciglio colava un sottile filo di sangue che gli scivolò tra le labbra. Ne assaporò il gusto ferroso e dolciastro, ma non fece nulla per cercare di tamponare la ferita.

Doveva restare nascosto, lasciare che il buio e il silenzio della notte lavorassero per lui, lo avvolgessero nascondendolo al gruppetto di inseguitori. Gli uomini mascherati che aveva intravisto poco prima all’interno del bosco dei Lanzi mentre, raccolti intorno a un piccolo falò, mormoravano litanie incomprensibili emettendo suoni gutturali che poco avevano di umano.

«Ti rendi conto di quello che dici?»

Era stata la voce di Valeria a pronunciare quelle parole. E una volta tanto la sua amica si sbagliava. Lui sapeva benissimo cosa stava dicendo.

Erano seduti intorno alla tavola imbandita, Valeria e Margherita vicine e lui appena più distante quasi che in quel momento le due donne stessero pesando e giudicando il suo racconto. Non nascose nulla. Di Erminio e delle sue strane parole, delle iscrizioni dipinte con il gesso sul muro, della scomparsa del file con il tracciato del corpo contenuto dall’albero. Non omise neanche la strana visione della cosa nascosta tra gli alberi e del misterioso “mercato” con cui l’uomo con la barba avesse venduto la propria anima. Parlava quasi in trance e nel narrare di questo ennesimo, oscuro avvenimento non si accorse dello strano comportamento di Valeria che, pian piano, un movimento impercettibile alla volta, si allontanava da Margherita. Lei ascoltava attenta, ma la sua collega stava mostrando chiari segni di insofferenza.

«Ti rendi conto di cosa stai dicendo?»

Quelle parole erano state taglienti, un coltello affilato capace di produrre in un istante una separazione netta dalla quale non si poteva tornare più indietro.

Valeria lo stava respingendo, stava respingendo anche la sola idea che nel racconto di Edoardo potesse esserci una briciola di verità. Margherita stessa si voltò a guardarla stupita.

«Vale’, ma che dici tu?! Quello che è successo a Edoardo è la storia più strana che abbia mai sentito raccontare. Ma non sta mentendo. E per quanto possa sembrare impossibile io gli credo. In questi boschi ci sono cose che nessuno conosce veramente. I taglialegna non girano mai da soli, vanno sempre in gruppo. Sarà per evitare incidenti, ma anche perché ad addentrarsi senza compagnia tra quegli alberi antichissimi, a volte hanno paura. E non sono uomini da poco. Più di uno è sceso a valle con un braccio o una gamba rotta senza aiuti, stringendo i denti. No, Edoardo è arrivato vicino a qualcosa di sconosciuto a tutti.»

«Sì, ha imboccato la strada della pazzia» replicò Valeria gettando nervosamente i capelli all’indietro «l’ho visto strano fin da quando siamo arrivati in questo maledetto paese, poi i malori, le visioni. Dai, Margheri’, vabbè che anche tu ci vivi tra ’ste pietre, ma pensavo fossi un po’ più scaltra dei tuoi compaesani.»

«Saremo pure ignoranti in confronto a te, dottoressa. Ma se qualcuno ci chiede aiuto glielo diamo e non stiamo a chiedergli che dice o cosa pensa.»

Margherita, le guance in fiamme, fissò negli occhi Valeria costringendola ad abbassare lo sguardo.

Edoardo assistette a quello scambio incattivito senza dire un’altra parola. Si sentiva tradito da Valeria che, come già aveva fatto un’altra donna, lo metteva in discussione con un’acredine inattesa. Quasi che avesse aspettato quel momento per sfogare una rabbia repressa che lui non sapeva spiegarsi.

Margherita, invece, si era schierata apertamente dalla sua parte. Non gli aveva chiesto nulla: lo aveva fatto e basta.

«Va bene» esclamò Valeria senza guardare in volto nessuno dei suoi interlocutori «se è così che la pensate, restatevene qui a giocare agli acchiappafantasmi. Io ho cose più importanti da fare. E, soprattutto, mi toccherà spiegare come mai non siamo riusciti a finire il nostro lavoro, vero Edoardo? Che gli dico a quelli della Provincia? Che c’è un mostro e non possiamo finire i rilievi? Poi, ci sono i segni. Per te adesso sono diventate “lettere”, magari una formula magica. Io, invece, sono sempre più convinta che sia qualcosa da approfondire con la scienza e non con la fantasia. E potrà tornarmi assai utile per la mia carriera. Se per voi due le cose stanno bene così, da questo momento fate pure a meno di me.»

La ragazza si alzò facendo traballare il tavolo. Si girò, raggiunse la porta del bar e uscì sbattendosela dietro.

«Ti rendi conto di cosa stai dicendo?»

Edoardo, infreddolito, coperto di fango, tormentato da cento tagli e graffi e da un dolore acuto alla spalla sinistra, quella sulla quale era atterrato dopo la caduta, ripensò ancora a quelle parole. Adesso si rendeva conto perfettamente di cosa avesse detto. Non aveva inventato nulla. Anzi, ne aveva le prove.

Aveva visto con i suoi occhi le figure degli uomini raccolti attorno a un grosso pietrone sporgente dal suolo. Li aveva visti bene, illuminati a giorno da un cerchio di grosse torce. Aveva ascoltato il loro salmodiare incomprensibile, parole smozzicate, gruppi di consonanti che rimbalzavano nell’aria scura del bosco come le scintille delle torce. Aveva osservato i loro movimenti, le loro braccia e le loro mani che si torcevano in aria a disegnare figure visibili soltanto ai loro occhi. Aveva sentito crescere la tensione mentre la luce dei fuochi iniziava a cambiare colore e la corteccia dei tronchi che circondavano quello spazio aveva cominciato a “sbiadire”, diventando traslucida e rivelando, a poco a poco, quei segni incomprensibili, nascosti da secoli.

Era un’aria antica quella che aveva avvertito. C’era un odore di pietra, di terra marcia in cui si agitavano misteriosi vermi pallidi. C’era un colore sì, un colore che lui non aveva mai visto e che sembrava vivo mentre si avvolgeva intorno ai tronchi, ai corpi degli uomini che si piegavano su loro stessi. Un colore che si addensò trasformandosi improvvisamente nella creatura che solo poche ore prima gli aveva graffiato il polso. Era qualcosa di concreto, mostruosamente concreto. Un nemico. Uno di quelli contro i quali si erano battuti gli uomini vestiti di pellicce nelle gelide notti dei loro inverni senza fine. Il nemico che veniva tenuto lontano dagli intrecci di mani colorate con il succo di piante velenose e disegnati all’ingresso delle grotte dove quegli antenati di tutti si rifugiavano al calore di fuochi fumosi.

 

Interessante, cosa ne dite?

Buona lettura!