Segnalazione:
Continuare a respirare
di
Veronica Polverari

Buongiorno lettori,
per Brè Edizioni vi segnalo la biografia: “Continuare a respirare” di Veronica Polverari.

Presento una storia vera, non allegra, parliamo della morte per covid della madre dell’autrice.

Riuscire a descrivere un lutto, emozionando, non è facile.

Veronica Polverari ci è riuscita.

Biografia:
Veronica Polverari nasce nel nord Italia, che lascia durante l’infanzia per trasferirsi a Senigallia (AN) dove oggi vive.

Intraprende gli studi scientifici, si laurea in Ingegneria Biomedica per poi lavorare nell’ambito del testing e della certificazione di prodotti. È moglie e madre e non avrebbe mai pensato di cimentarsi come scrittrice fin quando le parole non sono uscite di prepotenza dalla penna. Continuare a respirare nasce dalla necessità di fermare il tempo dopo una sconvolgente esperienza vissuta nel 2021.

Genere: biografia, storie vere (legato a un lutto da covid
Editore: Brè Edizioni
Data di pubblicazione: 22 luglio 2022
Numero pagine: 140

Sinossi:
Una dedica densa di emozioni. Una lettera che va oltre l’amore, oltre il dolore. Aurora e la sua Bibi, sono madre e figlia. Due persone unite da un immenso sentimento, un affetto che oltrepassa i legami familiari. Sono due cuori che convivono. Una vicenda narrata ai giorni nostri e che combatte i mostri attuali. E cosa c’è di più malvagio della pandemia che abbiamo vissuto negli ultimi anni? Le due donne si trovano a combattere un nemico sconosciuto, un rivale orribile che non ha pietà. Il Covid non si ferma davanti agli affetti, non si arresta davanti alle lacrime. Bibi e Aurora sono chiamate a superare una prova difficile, la più dura. E la sconfitta sembra essere troppo vicina e drammatica. Pensieri, nostalgie e memorie di un passato insolito, a tratti burrascoso, sono racchiusi in un romanzo che è un inno alla vita e alla speranza. Una presa di coscienza sul fatto che anche chi non c’è più, camminerà per sempre al nostro fianco.

 

Vi lascio un estratto:
Dopo il matrimonio, mamma si trasferì nel nord Italia. Lontana dalla famiglia di origine, con il suo nuovo marito, con il suo nuovo pancione. La vita non fu facile fin dall’inizio. I soldi scarseggiavano, lui lavorava poco e lei era casalinga. Era spesso sola in casa. Aveva fatto amicizia con una signora del palazzo che aveva un bambino appena nato, con cui avrei in seguito condiviso l’asilo nido.

Si sentiva spesso con mia nonna e le sorelle al telefono, le mancavano. Non riusciva a tenersi tutto dentro e in quelle telefonate si sfogava. Piangeva, si lamentava. Il marito era sempre fuori e non sempre per lavoro.

Un pomeriggio mamma era a casa, puliva il soggiorno, entrò il marito.

«Preparati, usciamo. C’è un negozio dove, mi hanno detto, cercano una commessa, ti accompagno.»

Mia mamma era felice, non sarebbe stato facile con la pancia che cresceva, ma aveva voglia di lavorare, di rendersi indipendente, di occupare il tempo con qualcosa di suo. Si preparò veloce, non badava più molto ai monili, non voleva farlo aspettare e aveva impazienza di sapere di cosa si trattasse. Una lavata ai denti, un’occhiata ai capelli e via verso il centro della città.

Entrarono in una piccola bottega, fuori non c’era nessun cartello appeso, una signora con lo sguardo severo era immobile dietro al bancone.

«Salve signora, suo figlio mi ha detto che lei è rimasta da sola in negozio.»

Mia mamma rimaneva zitta, lui già conosceva la donna e non voleva fare una brutta impressione per l’accento meridionale.

Gli occhi della signora squadrarono mia madre da dietro due lenti spesse come fondi di bottiglia.

«Sola, sì, quella matta è stata un disastro. Non ho fatto in tempo a cacciarla che una mattina non si è presentata di sua spontanea volontà.»

«Se le serve aiuto ci sarebbe lei.»

Mia madre si sentì in soggezione sotto lo sguardo freddo della negoziante, tentava di nascondere la forma del ventre dietro la borsa, poi rivolse un debole sorriso al marito da cui cercava appoggio.

«E lei chi sarebbe?» tuonò la signora senza pensare troppo alle buone maniere.

«É mia cugina.»

Il sorriso svanì dal volto di mia madre, senza badare più al pancione abbandonò le mani lungo i fianchi e si rivolse diretta alla proprietaria del negozio.

«Sì, sua cugina, piacere.»

L’aveva fatto di nuovo, di nuovo si era vergognato di non si sa cosa. Quel lavoro, mia madre, non lo ebbe mai, la donna non cercava, in realtà, nessuna commessa. Nel tragitto di rientro a casa, in macchina, la poveretta si liberò di tutte le grida che da tempo covava dentro. L’unica cosa che si era sentita rispondere, alla fine delle urla, era che, per farsi perdonare, l’avrebbe portata, quella stessa domenica, allo stadio a vedere la partita.

Giorno dopo giorno, mia madre cercava di focalizzare l’attenzione su di me, su quello che stava diventando l’unico amore della sua vita.

Il vedersi diventare genitore la faceva vibrare di gioia. Convivere con un uomo disinteressato a questa gioia, la faceva sprofondare nello scoraggiamento.

In una nevosa notte di dicembre iniziò ad avere le doglie. Era sola anche in quell’occasione. Suo marito, però, quella sera, stava accudendo il padre che era ricoverato in ospedale. Mia mamma, quando capì che non c’era tanto tempo da perdere, si fece accompagnare al Pronto Soccorso da sua cognata. Rimase da sola. Partorì da sola. Alle 4:05 di un sabato mattina mi diede alla luce.

Eravamo io e lei.

I miei cinquanta centimetri di pelle le si erano d’improvviso incollati sul petto. Ricoperta da una tutina in ciniglia troppo larga, la mia piccola schiena curva seguiva la morbida forma del suo avambraccio. La mia testa con i capelli ritti poggiava sopra il suo seno. Realizzò quanto quella posizione fosse così naturale, così spontanea, così universale. Da quella piccola virgola ricurva di corpi che si univano, si sprigionava tutto il senso della vita, dell’amore, dell’intera umanità. In quell’incastro perfetto, la mia vita era affidata completamente a lei, come lei dipendeva ormai interamente da me.

Era l’unica persona a cui aggrapparmi per poter vivere in questa nuova dimensione. Io ero l’unica a cui lei poteva aggrapparsi per poter vivere in questa nuova dimensione.

Era felice. Stanca. Dolorante. Gonfia. Ma era felice. Aspettava il momento in cui il marito fosse andato a trovarla. La vista di me appena nata li avrebbe riavvicinati e avrebbe ricordato anche a lui che l’anno prima si erano davvero amati. Era gonfia di orgoglio.

«Ciao.» disse lui sull’uscio.

«Ciao.» mia madre attendeva qualcosa. Un movimento, un gesto. Non un mazzo di fiori, quello aveva subito intuito non sarebbe mai arrivato. Una parola.

Non successe nulla. Se ne stava lì, sul ciglio della porta.

«Vieni, dammi almeno un bacio» dovette mordersi la lingua. Una vampata di calore le era salita fino alle orecchie, ma doveva tranquillizzarsi. Non poteva fare scenate. Non lì, non subito. Doveva lasciargli un’altra possibilità. Era irruente, si conosceva, stavolta doveva tenere a bada il nervosismo. Voleva dargli la possibilità di riappropriarsi della reputazione di uomo e di marito.

Lui si mosse avvicinandosi di poco alla moglie, non la sfiorò, poi si diresse verso la culla, si sporse appena su di me.

«Non è tanto bella.»

Ecco, costui era mio padre.

Quella frase è quanto rivolse a me. Ma è soprattutto la frase che rivolse alla moglie, dopo la notte più fantasmagorica della sua vita.

Di lì a seguire le cose non migliorarono.

Di soldi ce n’erano sempre pochi. Mia mamma andava a far la spesa e doveva contare le monete fino agli spiccioli per capire se poteva permettersi una busta di latte. Gli ostacoli quotidiani erano tanti.

In quei mesi si aveva anche paura della nube tossica proveniente da Chernobyl: non si potevano stendere i panni all’aperto, non si potevano consumare i prodotti dell’orto. Mia mamma era impegnata nel farmi crescere il più forte e sana possibile, ma era zoppa. Le mancava un sostegno, una spalla, l’aiuto, la complicità del marito.

Di sera, lui si metteva a guardare la televisione in soggiorno e alla fine, spinte dalle sue lamentele, io e mia mamma ci ritiravamo in camera da letto, così che le sue vocine e i miei urletti da infante non gli dessero troppo fastidio. Mi metteva sul lettone, mi tirava fuori le collane dal portagioie e io le passavo da una mano all’altra, le guardavo, le mettevo in bocca, le studiavo. Illuminate dalla luce fioca dell’abat-jour passavamo le serate così. Io e lei.

Nonostante lo strazio di ogni santo giorno, mia mamma non si faceva sottomettere. Appena aveva l’occasione gliene diceva quattro e anche più. Ma a lui da un orecchio entravano e dall’altro uscivano. Non era violento, almeno quello no. Ma non ci si poteva neanche litigare. Era talmente noncurante che non c’era contraddittorio, talvolta avrebbe preferito uno schiaffo piuttosto che tanta freddezza.

Dopo un anno e mezzo di sopportazione quella povera donna fece i bagagli.

Aspettava da sola il treno alla stazione di Milano, una grande valigia da portare a mano, senza rotelle, una bambina di poco più di un anno da tenere in braccio.

Aspettava con la sofferenza di chi aveva fallito e con la compiacenza di averci provato fino in fondo. Con la dolcezza, con l’indifferenza, con l’astuzia, con la rabbia. Le persone non cambiano. L’essenza rimane quella che gli viene cucita addosso alla nascita.

Quella casetta con il tetto rosso, il mulino e l’acqua che sgorga era davvero un’invenzione della pubblicità.

 

 

Interessante, cosa ne dite?

Buona lettura!