Segnalazione:
Dal fondo di un’acqua smarrita
e
Senza vero desiderio di andare
di
Marcello Furiani

Buongiorno lettori,
per Brè Edizioni vi segnalo i romanzi: “Dal fondo di un’acqua smarrita” e “Senza vero desiderio di andare” di Marcello Furiani.

Biografia:
Marcello Furiani nasce a Bergamo nel 1959. Da qualche anno vive ad Alessandria. Ha pubblicato “A novembre, era una neve” (Joker Edizioni, 2010), “Senza vero desiderio di andare” (Brè Edizioni, 2019) e la plaquette di poesie “Mia perfetta misura” (Amazon, 2021). Congiuntamente all’attività di scrittura si è occupato di ricerca filosofica.


Titolo: Dal fondo di un’acqua smarrita
Genere:
romanzo narrativa

Editore: Brè Edizioni
Data di pubblicazione: 20 dicembre 2021
Numero pagine: 145

Sinossi:
Guido, di professione editor, accetta l’incarico di trasformare in romanzo alcuni appunti scritti da Andrea, amico della giovinezza, morto da tempo. Dai fogli emerge una persona nuova, un giovane solo, inquieto, innamorato di una donna che viene paragonata a una dea, della quale però non si può svelare il vero nome. Chi è questa misteriosa ragazza soprannominata Irene? E come mai, se l’amore era così forte come si evince dagli scritti, l’uomo non ne ha mai fatto parola con nessuno? Si tratta di pura fantasia, di un vezzo artistico o davvero il compagno di giochi aveva dei segreti? Quasi senza accorgersene, Guido riesce a risolvere un mistero che lo coinvolge, ma non sempre le risposte sono quelle che ci aspettiamo. Non sempre le risoluzioni sono quelle che desideriamo. L’editor scopre una verità scomoda che, suo malgrado, deve accettare. Un romanzo di ricordi, di consapevolezze e di verità amare. Un flusso narrativo intimo e confidenziale per imparare ad accettare una realtà che non sempre incontra il nostro favore. Dopo Senza vero desiderio di andare, un’altra grande prova di alta letteratura, per lettori esigenti e preparati al meglio. Marcello Furiani è una garanzia!

 

Vi lascio un estratto:
Irene, tra la cornucopia e i rami d’ulivo, dove sei, musa fuggita e ispirazione perduta, Irene che va, che è ita come la vita, che è dissolta e svanita, tra i flutti è svaporata. Irene pace e discordia, buona e poi cattiva, nel mio cuore ha fatto un nido e poi piano lo ha mangiato. Irene che ha lasciato solo un ricordo abbocconato e la malinconia delle partenze, una malinconia gialla come il colore legato al suo nome, il colore dei pazzi, i muri di van Gogh su piazza Lamartine, giallo che riscalda la materia e la trasforma in oro, giallo come le bandiere issate sulle navi a segnalare pestilenze a bordo. Dove cercarti lungo la via, come riconoscere tracce sui cartigli o impronte in mezzo alla folla oppure chieder vaticinio ad aruspici o divinazione a un fondo di caffè, al volo degli uccelli, alle viscere degli animali? Irene persa nella nebbia, nella bruma che sale dai campi o nella caligine della trattura, Irene uscita di scena senza paura, che cammina al buio e si nasconde o che guarda diritto in faccia. Irene un punto sulla cartina chissà dove, Irene che cantava e poi ha taciuto per sempre, che levava meraviglia di tutto, smiracolava e piangeva e rideva e aveva il cuore alla cavezza di un dolore. Irene abbandonata, Irene che abbandona, Irene capelli neri su un’icona, nome fasullo sulla riva del nulla, canto di cabaletta, aria di ciaccona.

Poi, forse, un giorno si arrovesciò una giara d’olio nella colombaia e iniziarono le malesorti e le solitudini si fecero accorate fino a invadere gli occhi.

I quaderni di Andrea ingombravano il tavolo e le sedie dello studio, quei quaderni che avevano inventato un nome nuovo per quella ragazza, unico sogno impossibile, come in un battesimo o in una conversione religiosa, quasi a immaginare un’altra vita per entrambi.

Ma quale luce nuova avrebbe portato Irene sulla vita o la morte di Andrea, quali segreti avrebbe svelato, quali alleanze avrebbe tradito, quali viltà confessato e tenute dentro il corpo per quasi trent’anni? Quali parole in quegli anni gli aveva rivolto, quali confidenze e emozioni gli aveva affidato, quali carezze o quali rifiuti erano germogliati tra di loro? Le parole di Andrea – e anche i suoi gesti – erano immaginabili dalle righe che aveva lasciato e dalle lettere che aveva scritto, pur senza che Guido avesse la certezza le avesse spedite. Quel filo di lumaca sul sentiero, quelle tracce come orme sulla neve – così fragili e deperibili – dicevano come nella punta di una matita, nella punta arrotata e friabile di una matita ci fosse il sangue di un uomo e la sua ventura. A quei fogli – così indifesi al tempo – Andrea aveva rimesso la sua afflizione, la sua ombra, la sua condanna, la sua voce strozzata, la sostanza del suo respiro.

E Irene?

Ancora si faceva avvicinare, ancora serbava parole che tenevano compagnia come il profumo dei fiori che a sera richiamano le falene, ancora ascoltava in silenzio – con la spontaneità di certi sorrisi e di certi sguardi – una voce insidiata da un fruscio, da una crepa, dal guasto di venire al mondo malnati dentro un corpo che ci è ostile? Oppure il suo cuore si era ghiacciato e le mani rattrappite, ferita o spaventata da qualcosa che Guido ignorava, messa in fuga da uno sgomento o da un’impossibilità? E mai aveva avuto la tentazione di volgersi indietro, di voltarsi come un Orfeo capovolto, istigata dal rimpianto, scheggiata dal rimorso?

E al paese da cui era fuggita tornava qualche volta, spinta da quella nostalgia che con gli anni andava sempre più asciugandosi o da un desiderio di ricordare quello che era stata, tanto tempo prima? Forse, tornando, avrebbe intuito come i luoghi che abbiamo amato – appena fa silenzio – ci rivolgano la parola, proferiscano nostalgie, richiamino la nostra attenzione con gesti e sorrisi, ci seducano da una distanza inguaribile. Questi luoghi hanno un accento dentro la loro voce che ci chiama a sé, ci chiede cosa ne abbiamo fatto delle nostre parole, dei nostri desideri, ci chiede ragione delle nostre viltà e delle nostre trascuratezze.

Basta un indizio che ci riporta indietro a farci voltare: una piazza, un giardino, il colore di una casa, il rumore di una pioggia e ogni cosa, nell’incrinatura del ritorno, si versa in noi come una domanda, come l’attesa di chi aspetta un battesimo, di chi invoca un nome.

I luoghi che abbiamo amato sono davanti a noi, ma – più cerchiamo di avvicinarci – più ci osservano da lontano. Il nostro sguardo insegue una precisione, l’esattezza della messa a fuoco, nello struggimento di poter tornare indietro anche solo un istante. Ma, per sentire ancora quell’odore, quella voce, quel rumore del passato, dobbiamo nominarli questi luoghi che abbiamo amato, chiamarli con il loro nome e prestare ascolto a quello che non abbiamo udito, a ciò di essenziale che ci hanno detto. E, forse, solo nei ritorni possiamo intravedere quello che siamo diventati, osservarci dalla nostra infanzia come in una lente rovesciata, vederci camminare con gli occhi di un tempo, con quello sguardo che ci interroga per le attese e le promesse naufragate di cui allora era imbevuto con l’insolenza e l’illusione della giovinezza.

“Il tuo viso colore dell’ombra / nasce dal fondo di un’acqua smarrita”

aveva scritto Andrea, come se solo dopo un perdersi – forse un dileguarsi – fosse possibile riemergere, risalire alla luce e farsi riconoscere di nuovo. Il viso di Irene era sgorgato alla vita dopo chissà quali macerazioni, come se tutto il tempo di entrambi si caricasse di una lunga attesa, giornata dopo giornata, anno dopo anno, prima di giungere agli occhi. Ma questo alla fine non era stato sufficiente e – per una paura che richiedeva coraggio assecondare – Irene era andata via senza, pare, voltarsi indietro, insieme a una tristezza primaverile e assassina o sotto una pioggia che mutava il colore dell’asfalto.

Oppure infuriava il vento quella mattina – almanaccò Guido – una tramontana che spazzava i cortili e le piazze e piantava negli occhi un gemito che sembrava frantumare ogni attesa, ogni avvenire: quel lamento fissava un limite, una frontiera invalicabile, una partenza senza ritorno e senza l’indulgenza degli angeli.

 

Titolo: Senza vero desiderio di andare
Genere:
romanzo narrativa

Editore: Brè Edizioni
Data di pubblicazione: 30 ottobre 2019
Numero pagine: 213

Sinossi:
“Senza vero desiderio di andare” è un romanzo – anche se non di fiction pura – in cui si combinano due elementi. Da una parte l’opera ha la sua germinazione dal percorso di elaborazione per la morte della moglie a cui è chiamato il protagonista, attraverso il racconto di una vicenda intima e personale che si dispiega lungo solitarie giornate. Attorno a ciò si raccoglie uno sguardo critico e disincantato – talora feroce e sarcastico, ma accorato e spaesato – sul degrado, lo sbriciolamento culturale ed etico del cosiddetto postmoderno, sull’imbarbarimento della condizione antropologica conseguente alla crisi della modernità nella società del capitalismo esasperato.
È nelle intenzioni una narrazione insieme intimistica e civile, poco indulgente; uno zibaldone che acquieta i propri sussulti nel gesto del racconto.
A fondamento dell’opera c’è una ricerca su una lingua “capace di imprimere, di radicare, di marchiare, di urticare”. Un romanzo che è quasi un saggio su un’umanità sempre meno umana, misto a un inno d’amore verso l’amata moglie, con lo scopo di scuotere le coscienze e i cuori ormai infreddoliti dalla smania del denaro facile. Un’opera di alta letteratura, adatta a palati sopraffini, per un giusto nutrimento.

 

Interessante, cosa ne dite?

Buona lettura!