Ha sparato. Ha sparato due volte.
Lo vedo uscire dalla casa e puntare la pistola in alto, come uno starter sulla linea di partenza, mentre urla di fermarmi. Il primo colpo va a vuoto e finisce dentro la fronda della quercia: le foglie, distrutte dal proiettile, schizzano in alto in una pioggia di ramoscelli in frantumi, insieme al frullo d’ali degli uccelli. Comincio a correre più veloce di prima. Questa è una gara di sopravvivenza: se non scappo, sono morto. Con la coda dell’occhio, vedo puntare il braccio dritto verso di me. Prende la mira: il secondo sparo infuoca il buio, sento un boato dentro l’orecchio destro, una sferzata sul timpano. Le mie gambe s’incrociano, cado in ginocchio nel fango fresco, in mezzo alle foglie spappolate dalla pioggia. Non ci posso credere che mi abbia sparato davvero: mi viene quasi da ridere, è assurdo che l’abbia fatto. Mai avrei immaginato che a quindici anni potessi finire giustiziato in mezzo alla campagna. Inspiro, cercando di riprendermi, e un tanfo di carne bruciata mi riempie le narici. Sono ancora vivo. Mi rialzo e riprendo a correre, senza pantaloni né scarpe. Prometto a me stesso di non fermarmi più: meglio un proiettile nella schiena o alla nuca, meglio morire di faccia dentro la fanghiglia, piuttosto che implorare pietà, per poi finire ammazzati lo stesso. «È solo una puttana!» hanno gridato nella casa. Continuo a correre, più forte di quanto non abbia mai fatto in vita mia, sotto il diluvio, col palmo premuto sull’orecchio destro. Il sangue mi cola caldo in mezzo alle dita, ma non mi azzardo a togliere la mano, ho paura che l’orecchio si stacchi e cada per terra. Nelle orme fangose lascio dietro di me una seconda traccia, rossa e indelebile. Ecco la ferrovia, i lampioni in cemento armato che illuminano la campagna di Acquaviva, gli alberi, rigidi come sentinelle, che montano la guardia nella notte… Corro sui binari, in mezzo alle traversine di legno e le pietre taglienti, incurante dei treni che potrebbero arrivare in qualsiasi momento. Ma è tardi, non ne passerà nemmeno uno. In queste notti di primavera c’è traffico solo in cielo. I caccia militari sfrecciano per andare a sganciare le loro bombe dall’altra parte dell’Adriatico, in Serbia e in Kosovo. Proprio ora spunta uno di quei bestioni: lo riconosco, è un Harrier e la sua scia di luce bianca squarcia in due il buio. Potrei correre più forte degli aerei, arrivare all’aeroporto militare di Gioia del Colle e impedirne la partenza. Invece non riesco più nemmeno a camminare: le gambe sono diventate un ricordo, ho dolore al petto. Mi fermo, mi accartoccio sui binari e piango. Sono abbastanza lucido da capire di non essere ancora al sicuro, così mi trascino a carponi per altri dieci metri e trovo rifugio nell’insenatura di un piccolo stagno, almeno non mi trovo più in campo aperto. Mi costringo a pensare a qualcosa di bello: a lei, al suo 6 vestitino corto di jeans che le lasciava scoperte le gambe dorate dal sole… Urlo il suo nome, maledico la guerra e tutti gli uomini.