Segnalazione:
La caduta
di
Stefano Guglielmo

Buongiorno lettori,
per Brè Edizioni vi segnalo il romanzo: “La caduta” di Stefano Guglielmo.

Un romanzo originale che sta avendo un ottimo riscontro: un viaggio verso “l’inferno” in un misto di noir e adrenalina.

Biografia:
Stefano Guglielmo, classe 1984 nasce in provincia di Torino, ma da dieci anni vive a Siena. Ha fatto il suo esordio nel 2020 con Tabula Rasa (bookabook). L’anno seguente ha pubblicato La Divisione Aggiustatempi (PS Editore).


Genere: romanzo narrativa
Editore: Brè Edizioni
Data di pubblicazione: 1° aprile 2023
Numero pagine: 166

Sinossi:
Una caduta può essere interpretata in molti modi. Si può cadere tra le braccia di qualcuno, si può cadere in disgrazia. Si può cadere per terra o si può cadere da un palazzo. L’Uomo di ghiaccio è scivolato, quasi a sua insaputa, in una faccenda poco pulita. Si è trovato invischiato con persone poco raccomandabili: la Fiera, i Romeni, l’Uomo enorme e spietato. Il protagonista non riesce a capire come possa essere successo. Perché mettersi nei guai solo per un banale litigio con la fidanzata? Eppure, ora si trova braccato, deve nascondersi dopo avere assistito a delitti e fatti atroci. Ma tra tutti questi criminali, tra odio e furore, al suo fianco compare una persona che diventerà fondamentale: il Vecchio. Un anziano saggio, colto e soprattutto disincantato che lo farà crescere e lo renderà in grado di affrontare la crudeltà. Un romanzo adrenalinico, una corsa contro il tempo, con la speranza che tutto si risolva nel migliore dei modi per questo “Uomo di ghiaccio” che si scioglierà al cospetto del suo mentore e di un cucciolo di Labrador.

 

Vi lascio un estratto:

VII Piano

Sarei curioso di sapere cosa diceva il mio oroscopo della giornata di oggi. Avevo prestato poca attenzione all’astrologo in TV, ma sono abbastanza sicuro che non recitasse: «Lavoro: oggi cadrete da un palazzo. Salute: aspettatevi una novità.»

Ho sempre preso in giro chi si affidava all’oroscopo o lo ascoltava solo. Ora mi sento di dire che li capisco: la vita è un affare troppo grosso per non avere un pizzico di superstizione.

Anche adesso che mi avvicino in maniera terrificante al suolo, una parte di me vorrebbe tanto avere un portafortuna. Magari a forma di materasso gonfiabile gigante.

Ai piedi di questo edificio, alla fermata del tram, ci sono sempre tre donne anziane. Passano il pomeriggio a parlare degli altri, forse perché la loro di vita non è mai stata interessante. Sono le tipiche persone che quando parlano di sé stesse dicono «Ne ho viste io di cose…» senza mai entrare nello specifico.

Un pochino sono felice per loro: sapere di essere sedute laddove il giorno prima un uomo si è sfracellato al suolo dovrebbe dare carburante ai loro discorsi. Almeno per un paio di giorni. Il primo giorno parleranno del come. Nei giorni successivi si chiederanno il perché. Scommetto che non ci metteranno molto a darmi del drogato con problemi di soldi.

Eppure i soldi, negli ultimi giorni, erano l’unico problema che non avevo.

***

Conobbi Cece nella sala d’attesa di un pronto soccorso. Era un tardo pomeriggio di febbraio e fuori era buio. Se non ricordo male, una leggera pioggia intirizziva chi usciva a fumare.

Lei indossava dei pantaloni di una tuta neri e un maglione a dolcevita, i capelli raccolti senza guardarsi allo specchio, credo, e delle scarpe pesanti che non erano abbinate alla sua tenuta. Era ovvio che fosse uscita di corsa. Teneva, sopra le gambe accavallate, un giaccone rosso, i fogli del pronto soccorso e controllava annoiata il cellulare. Scoprii tempo dopo che stava attendendo il suo ragazzo, il quale si era ferito a una mano mentre giocava a calcetto con gli amici. Io avevo accompagnato un collega di lavoro che si era infortunato. Indossavo una giacca con il nome della ditta di idraulica per la quale lavoravo a quel tempo.

La notai subito, non appena feci il mio ingresso nella sala d’attesa. Non fu solo per il fatto che fosse la persona più giovane nella stanza ma perché, nonostante non fosse acconciata e abbigliata di tutto punto, emanava un fascino innegabile. Le squillò il cellulare, la suoneria era una vecchia canzone che parlava di ballerine.

Mi sedetti nella sua stessa fila, a qualche sedia di distanza senza approcciarla.

«Posso chiederti un’informazione?» chiese di punto in bianco dopo qualche minuto. Una voce cristallina, un torrente invernale che batteva sui ciottoli.

Indicai il logo sulla mia giacca: «Se non riguarda l’idraulica, certo.»

Sorrise: «In caso contrario dovrei pagare la chiamata?»

La sua battuta pronta mi spiazzò. Mi ritrovai a sorridere con un angolo della bocca.

«No, preferisco non chieda nulla di idraulica semplicemente perché io non ne capisco niente. Non voglio fare brutta figura.»

Rise. Per quanto si possa ridere in una sala d’attesa di un pronto soccorso.

Quella sera avvenne per la prima volta qualcosa che scoprii mi accadeva solo quando ero in sua compagnia: il tempo veniva inghiottito. Senza accorgercene, trascorremmo tre ore abbondanti chiacchierando, scherzando e prendendoci in giro.

Venimmo interrotti dall’uscita del mio collega che si sorreggeva su delle stampelle. Fu sorpreso di vedermi ancora lì. Specie perché da tempo era arrivata la moglie per accompagnarlo a casa.

Io feci in tempo a chiedere a Cece come si chiamasse e poi salutarla, per quel che ne sapevo, per sempre.

***

«Si può sapere che ti è preso?» aveva chiesto Cece prima di cacciarmi di casa.

La cosa buffa è che non lo sapevo nemmeno io. La mia crescente apatia preoccupava anche il sottoscritto da un po’ di tempo. Ma non saprei proprio dire da dove fosse cominciato il tutto.

Semplicemente, un giorno ridevo di una battuta e quello successivo smisi di farlo. Tutto cominciò ad avere il gusto di qualcosa di già sentito, di già visto. Come se a teatro avessi notato i fili dei burattini e la magia fosse scomparsa d’incanto.

Mi torna in mente un pomeriggio d’autunno. Io e Cece avevamo fatto una gita al mare. Lei aveva un cane ormai vecchio e giocava sulla sabbia con lui.

Il cielo era coperto e una fredda brezza sollevava spruzzi d’acqua verso il bagnasciuga. C’era bassa marea.

Era già da qualche mese che mi ero sorpreso a non provare più alcuna emozione. Tutto mi risultava ovattato. Mi avvicinai piano piano all’acqua. Le mie scarpe sul bagnasciuga, in attesa dell’onda. Attendevo l’onda e quel momento in cui avrebbe circondato i miei piedi. Sapevo che dopo qualche istante avrei avuto una sensazione di freddo e avrei sentito le calze bagnarsi.

Non me ne fregava nulla di rimanere coi piedi bagnati: volevo provare qualcosa, volevo sentire il freddo pungermi i talloni e provare, provare, anche solo il fastidio di avere i piedi bagnati in una fredda giornata. Guardavo la scena come fosse al rallentatore. Nulla sfugge all’acqua.

Infine, un’onda più importante delle altre venne fino a me. Mi circondò lambendo le suole, sorpassandole. La sabbia cedeva sotto l’azione del mare e del peso del mio corpo facendomi sprofondare di qualche centimetro. Io attendevo il freddo.

Nulla.

Le scarpe erano impermeabili. Le avevo comprate apposta. L’acqua tornò indietro per ricominciare il suo millenario lavoro. Persino lei mi lasciò asciutto.

Provai solo un pizzico di delusione. Nient’altro.

***

Il viaggio fino alla discarica fu lungo. Faceva caldo, nonostante fossero le due del mattino di un giorno in pieno autunno.

Il cellulare mi segnalava che avevo più di trenta messaggi oltre a diverse chiamate senza risposta.

Ascoltai solo il messaggio in segreteria: se qualcuno aveva avuto la pazienza di registrarlo forse era importante.

«Ciao…» la voce di Francesco era sempre gioiosa e, per questo, irritante «ti ho chiamato per sapere se vieni a bere una birra stasera. Al momento saremmo tu e io…» risata nervosa «beh, sì facciamo due chiacchiere. Fammi sapere, ciao.»

Francesco è un po’ più vecchio di me, lo conobbi in palestra qualche anno addietro. Perlomeno quando frequentavo la palestra. È la tipica persona che attacca bottone con tutti. Non è antipatico, ma ha il brutto vizio di interessarsi agli altri e di avere una buona parola per ognuno.

Un giorno feci l’errore di dargli il mio numero di telefono e quindi una o due volte la settimana ci vediamo. Credo pensi di essermi amico.

Il Vecchio parlava solo se interrogato e, dato che la mia unica domanda fu se poteva fermarsi in un’area di sosta perché dovevo andare al bagno, le conversazioni non furono molte.

Alla sosta pipì gli offrii un caffè che bevve in silenzio senza prestare attenzione a nulla.

 

 

Interessante, cosa ne dite?

Buona lettura!